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Perché giochiamo ai giochi di ruolo

di Luca Giuliano

La migliore risposta alla domanda "perché gli esseri umani giocano" è forse quella più banale: "giocano perché si divertono". La banalità è solo apparente, in quanto il verbo riflessivo "divertirsi" ("passare il tempo in attività piacevoli") esprime uno degli scopi più ambiti e controversi dell'uomo: quello di soddisfare i suoi bisogni in modo appagante e gradevole.
Questo punto di vista edonistico - sul quale non si intende aprire un discorso etico - potrebbe portarci molto lontano, al cospetto dei grandi sistemi di pensiero della nostra epoca, in particolare della psicanalisi. Non diversamente accadrebbe se decidessimo di scegliere il punto di vista diametralmente opposto, secondo il quale, "giocare" sarebbe un modo per indirizzare gli impulsi distruttivi dell'uomo verso un'attività innocua.
Questa posizione ha molte affinità con chi ritiene che il gioco sia una risposta istintiva all'eccesso di energia prodotto dalla crescita o un prodotto collaterale dell'aggressività.
Secondo il punto di vista più pragmatico dei comportamentisti, il gioco sarebbe invece un modo per dare agli individui l'opportunità di mettere alla prova le proprie capacità di risposta agli stimoli senza doverne sopportare le conseguenze più pericolose.
Anche il cognitivismo da una risposta analoga, sostenendo che il gioco serve soprattutto ai bambini per sviluppare le abilità che saranno loro necessarie per entrare a far parte della società degli adulti. Ognuno potrà trovare una ragione per non essere d'accordo con alcuni o con tutti i punti di vista espressi finora.
Appare così evidente che dare una risposta alla domanda "perché gli esseri umani giocano" è tutt'altro che semplice.

Non contenti di ciò, noi ci domandiamo perché gli esseri umani giocano ai giochi di ruolo (GdR).
Per chi non lo sa, i GdR sono quelli in cui i partecipanti, sotto la guida di un organizzatore e stando seduti intorno ad un tavolo, interpretano i ruoli dei personaggi protagonisti di un'avventura immaginaria.
Un modo di giocare che si è consolidato in regolamenti, scenari ed ambientazioni disparate da soli diciotto anni, e che viene classificato dagli esperti sotto la rubrica di "giochi di simulazione" (una categoria più ampia che va dal Wargame tridimensionale al gioco per computer). Il GdR è prima di tutto un gioco di produzione fantastica, affine alla lettura di "evasione", esprime il bisogno di dare sostanza alla propria immaginazione: di provare emozioni insolite, di identificarsi in personaggi che sfidano il pericolo, di percorrere i paesaggi della fantasia, del desiderio oppure dell'incubo. Come il cinema, d'altra parte, e molto prima di questo, in tempi assai lontani, la poesia epica, il teatro epico, la favola, il racconto di viaggio.
Il GdR, diversamente da tutte le forme artistiche precedenti, ha qualcosa in più che deriva dall'esperienza della identificazione con un personaggio che non è la proiezione di un autore, bensì la proiezione del giocatore stesso.
Il GdR promuove una identificazione attiva con il personaggio e non semplicemente una identificazione passiva, sul cui esito decide l'autore senza alcuna possibilità di intervento da parte del lettore-spettatore. Il gioco permette una "assunzione di ruolo" che si avvicina molto a quella reale, anche perché avviene in un contesto collettivo, di scambio con il campo di esperienza di altri giocatori che partecipano allo stesso meccanismo.
Il GdR simula così una vera e propria "costruzione della realtà sociale".
Infine, il GdR permette di entrare consapevolmente in un sogno, nel quale si possono compiere imprese straordinarie, ai limiti delle possibilità umane e anche oltre. Il personaggio non è una copia di se stessi, è il riflesso di un desiderio o di una paura; durante il sogno-avventura, condiviso con gli altri giocatori e quindi più che mai "reale", il personaggio è ciò che il giocatore vuole essere in quel momento: se stesso e qualcosa di diverso da se stesso, un'emozione sospesa tra l'essere e l'apparire che, a volte, tocca la vertigine.
Il GdR diventa un'esperienza totale di "assorbimento controllato": i giocatori, in alcune circostanze, cambiano tono di voce ed espressione del viso secondo lo stato d'animo del personaggio in quel momento ("play"), eppure rimangono costantemente in stato di "controllo" della situazione, pronti ad uscire dal personaggio per parlare come giocatori e confrontarsi con la regola ("game"). Questo è particolarmente vero per il Master, per il direttore del gioco, che deve essere contemporaneamente giocatore, arbitro e organizzatore, assumendo di volta in volta le parti di tutti i personaggi non-giocatori che prendono vita nello scenario.
Molte delle motivazioni che i giocatori portano per spiegare la loro passione per il GdR possono essere ricondotte a queste: fantasia, identificazione, coinvolgimento.
Poi c'è il piacere di stare insieme, di scambiare le proprie esperienze con altri che condividono gli stessi gusti, di mettere alla prova le proprie abilità e -perché no?- di liberare l'aggressività latente.
Il gioco ha anche una funzione mitopoietica? Certamente. Produce finzioni che pretendono di essere vissute. Il giocatore affida al mito una parte della propria esistenza, seppure immaginaria. Ma questo non accade soltanto nel Gioco di Ruolo.